Breve storia degli aerofoni a sacco

«Dove c’è un otre c’è una zampo­gna». Questo assunto, pur se improprio e applicabile al solo àmbito musicale, dà il senso di quella che è la caratteristica essenziale e distintiva degli stru­menti appartenenti ad una precisa ca­tegoria: gli aerofoni a sacco. Vale a dire i fiati ad ancia con canne sonore ali­mentate tramite un otre che funge da riserva d’aria per il suonatore.
Gli aerofoni a sacco sono presenti in Europa e in alcune aree extra europee, in una varietà tanto ampia di tipi e mo­delli da rendere difficoltosa una loro ca­talogazione precisa e completa.

8-8
8-8

8-13
8-13

8-14
8-14

8-9
8-9

8-12
8-12

8-3
8-3

8-2
8-2

8-6
8-6

8-10
8-10

8-4
8-4

8-7
8-7

8-5
8-5

8-11
8-11

8-1
8-1

Origine degli aerofoni a sacco

Una delle questioni più dibattute è stata quella dell’origine storica degli ae­rofoni a sacco. Su tale argomento, Curt Sachs [Storia degli strumenti musicali, Milano 1985, pp. 159-160] scrive: «L’origi­ne della zampogna è sconosciuta. Su un rilievo del tredicesimo secolo a.C. ap­partenente al palazzo ittita di Eyuk stu­diosi troppo frettolosi credettero d’aver scoperto la prima zampogna; in realtà il sacco è la vittima animale d’un sacrifi­cio e le due “canne” sono solamente due nastri che pendono dalle due corde d’un liuto portato dinanzi l’offerta sa­crificale. Pure un errore è stato quello di intendere come zampogna la parola aramaica sumponiah che ricorre nel Libro di Daniele […]. E ancora abbiamo di­mostrato come uno strumento del ge­nere non sia potuto essere presente in Israele e nella Grecia classica. La prima zampogna della quale si ha notizia si­cura risale al I secolo d.C. […]. Lo stru­mento poteva essere stato importato da poco dall’Asia, e come le moderne zam­pogne asiatiche, era probabilmente mu­nito d’un clarinetto o d’un clarinetto doppio».
Nell’indagine sulle ere antiche, lo storico dell’organologia ha quasi sem­pre a disposizione documenti fram­mentari e non soddisfacenti. Tale limite rende impossibile l’esatta ricostruzione della nascita, dello sviluppo e della conservazione degli strumenti musicali.
Essendo le cornamuse aerofoni ad ancia, l’analisi di queste fasi storiche trova avvio da un’epoca in cui ebbero ampia diffusione e fortuna alcuni og­getti sonanti costituiti da canne multi­ple munite, appunto, di ancia. Baines annota come, già cinque millenni fa, gli antichi flauti di canna, legno od osso, iniziassero ad essere sostituiti da una «serie di tubi ad ancia che da quel mo­mento in poi in pratica monopolizzaro­no la musica per strumenti a fiato del­l’antichità, culminando nell’aulos greco e nella tibia romana».
Tra tali strumenti, assicuravano par­ticolari vantaggi musicali quelli a più canne. Il doppio aulos era formato da due tubi sonori utilizzati «quasi sempre in coppia: il suonatore reggeva una canna per ciascuna mano e suonava entrambe simultaneamente» [A. Baines Storia degli strumenti musicali, Milano 1983, pp. 235-236]. La varietà delle tecniche ese­cutive sarà apparsa sbalorditiva al mu­sicista abituato a suonare su strumenti a fiato con canna singola.
Gli auloi, come detto, erano muniti di ancia. È difficile risalire all’epoca preci­sa in cui questo particolare dispositivo fu introdotto negli strumenti a fiato. André Schaeffner [Origine degli strumenti musicali, Palermo 1987, p. 301] conside­ra l’ancia «semplice, battente, […] fra i processi sonori più antichi e più diffu­si». Egli, infatti, si chiede: «Una volta giunti all’idea della canna, come non pensare di sollevarne dalla parete un frammento?».
È certo che aerofoni di canna, coevi dell’aulos e con ancia sem­plice, esistevano nei territori del bacino del Mediterraneo, così come anche oggi è possibile trovarne, ma le fonti iconografiche più attendibili fanno propende­re per l’uso dell’ancia doppia in gran parte degli auloi greci ed etruschi e nelle tibiae latine, pur s’è indiscussa la pre­senza di tipi ad ancia semplice.
Si conoscono vari oboi antichi suo­nati in coppia. Curt Sachs [op. cit., p. 157] ne segnala alcuni: «Greci e Romani pos­sedevano numerose specie di oboi dop­pi. Il più importante era l’oboe doppio fri­gio che aveva le due canne di lunghezza differente, con la più lunga ricurva ver­so il fondo e terminante con un largo padiglione simile a quello d’una trom­ba; i fori per le dita erano posti ad altez­za diversa in ognuna delle due canne, le quali avevano […] piccolo diametro. Una denominazione greca per quest’o­boe doppio era auloi élymoi. L’oboe doppio lidio, invece, che venne indicato dai Ro­mani con la denominazione tibiae serranae (fenicie), aveva canne di eguale lunghezza e coi fori per le dita in identi­ca posizione. Le canne dell’oboe doppio erano ricavate in diverse misure e in diversi tagli d’altezza sonora».
I Romani attuarono sulle tibiae una classificazione piuttosto netta, che di­stingueva gli strumenti in due gruppi principali: tibiae pares e tibiae impares, che corrispondono a canne di lunghez­za uguale o diseguale, come nei casi de­gli oboi frigi e fenici poc’anzi ricordati nella descrizione di Sachs. Significativamente, ancora oggi, tra le zampogne italiane, ce n’è un tipo che è detto a paro (ciaramedda calabro-siciliana) poiché ha, come le antiche tibiae serranae, i chanter di medesime dimensioni.
Il principale problema esecutivo per i suonatori di auloi e tibiae era l’effettua­zione della tecnica del fiato continuo, necessaria ad ottenere il suono ininter­rotto. Ciò, sicuramente, indusse qualcu­no a pensare ad una riserva d’aria da usare ogni qualvolta si doveva riprendere fiato: un otre da applicare allo stru­mento e che, collegato alle canne sono­re, poteva alimentarle in modo conti­nuo. Pronunciarsi con certezza su quan­do e dove ciò avvenne è difficile, pur se indicazioni importanti possono aiutarci in tal senso. Il fatto, ad esempio, che fino a tutta l’epoca preimperiale romana non si riesca a trovare prova inconfuta­bile dell’esistenza d’una zampogna, ci dà l’idea di come lo strumento dovesse essere sconosciuto (o noto solo margi­nalmente).Alcuni hanno creduto di individuare una suonatrice di zampogna nei versi del componimento noto come Copa Surisca (Ostessa Siriana), attribuito a Virgilio ma quasi certamente d’altro autore, sep­pure coevo del poeta mantovano. L’o­stessa citata nei versi era capace di bal­lare e far vibrare delle stridule canne sotto un gomito: «Copa Surisca caput graeca redimita mitella / crispum sub crotalo docta movere latus, / ebria formosa saltat la­sciva taverna, / ad cubitum raucos excutiens calamos». Tale descrizione, però, è troppo indeterminata; in nessun modo autorizza a identificare l’uso di una zampogna.
Le prime notizie sull’uso certo d’uno strumento musicale a sacco risalgono al periodo della Roma Imperiale. In uno dei suoi Epigrammi, Marziale (40 ca, 104 d.C.), utilizzando un vocabolo composto di derivazione greca, menziona l’ascaules Cano: «…credis hoc Prisce? / voce ut loquatur psittacus coturnicis / et concupiscat esse Canus ascaules?» [Epigr. 3, 10]. Il so­stantivo ascaules indica sicuramente uno zampognaro. In greco, ascos sta per sacco e aulos per piffero ad ancia; per­tanto, l’unione di queste due parole equivale ad altri vocaboli composti in uso negli idiomi di varie culture e che identificano gli aerofoni a sacco (inglese bagpipe, tedesco sackpfife, belga pijpzak, svedese säckpipa).
Il biografo latino Svetonio (70 ca, 140 ca), nel De vita Cesarum [Nero, 54], scrive che Nerone «sub exitu quidem vitae palam voverat, si sibi incolumis status permansisset, proditurum se partae victoriae ludis etiam hydraulam et choraulam et utricularium». Quindi, Nerone (37-68 d.C.) era in grado di suonare tre strumenti, sapen­do fare l’utricularius (zampognaro), cioè il suonatore di utriculus (zampogna). An­che Dione di Prusa (40 ca, dopo il 112 [115?]), in un passo riferito allo stesso Nerone [Orat. LXXI, 9], afferma come l’imperatore sapesse suonare la tibia e contemporaneamente comprimere col braccio un sacco.
Oltre queste citazioni su Cano e Ne­rone, non vi sono, allo stato attuale del­le conoscenze, incontrovertibili attesta­zioni precedenti; ancorché si conosca una leggenda che narra come Giulio Ce­sare, nel 55 a.C., impegnato nella con­quista dell’isola britannica, sia riuscito a sconfiggere i nemici grazie al suono del­le zampogne usate da alcuni suoi solda­ti. Ma si tratta solo d’un racconto mitico, senza nessuna concreta attendibilità storica. Anche se c’è da segnalare come siano state interpretate quali zampogne da guerra (war pipes) gli strumenti a fia­to usati dall’esercito romano-bizantino nelle battaglie contro i Goti (VI secolo d.C.) descritte nella Storia delle guerre di Giustiniano, opera dello storico Procopio di Cesarea, secondo il quale il segnale dell’attacco militare era dato col suono di strumenti fatti di cuoio e legni sottili [cfr. A. Baines, Bagpipes, Oxford 1979, p. 67]. La descrizione di Procopio, però, non convince; è troppo vaga ed eccepibile.
Nel settore delle attestazioni lettera­rie, dovrà passare un periodo lungo pri­ma di rintracciare nuovamente la reale descrizione di una zampogna. Nell’Epi­stola ai Dardani (IX secolo), si legge: «Antiquis temporibus fuit chorus quoque simplex, pellis cum duabus cicutis aereis, et per primam inspiratur, secundam vocem emittit». Secondo tale descrizione, il chorus era un aerofono fornito di pelle, con un tubo per l’alimentazione e una can­na per suonare; quindi, una cornamusa “elementare” realizzata con fusti di cicuta, una pianta la cui utilizzazione per costruire strumenti musicali era già sta­ta segnalata nei testi di epoca classica.
Per comprendere le caratteristiche delle antiche cornamuse romane e di quelle in uso nei primi secoli del me­dioevo, sarebbe fondamentale poter os­servare le loro raffigurazioni. Purtroppo, nel campo iconografico, è pressoché to­tale la carenza documentaria relativa a tali periodi storici. Per quanto riguarda l’utriculus, né l’arte figurativa né l’ar­cheologia hanno conservato immagini originali; benché di tale strumento lati­no ci sia pervenuta l’effigie riprodotta postuma, in libri stampati dopo molti secoli dall’effettiva epoca in cui esso era in uso. Nel De tribus generibus instrumentorum musicae [Roma 1742] di Francesco Bianchini sono incluse le raffigurazioni di due zampogne romane (o presunte tali). Un altro autore, Francesco de’ Ficoroni, ne Le maschere sceniche e le figure comiche d’antichi romani [Roma 1736, pp. 214-218, tav. LXXXIII], descrive e fa stampare l’illu­strazione d’una corniola dell’antica Roma raffigurante un saltatore (ballerino) nudo, con in mano un aerofono a sacco (o qualcosa di molto simile).
Nella storia della zampogna, l’alto medioevo costituisce una sorta di “bu­co”; un vuoto di notizie che sembra im­possibile riuscire a colmare.
La raffigurazione d’una zampogna italiana medievale è riprodotta nel Sal­terio polironiano, una miniatura d’inizio XII secolo; ma anche qui siamo in un terreno quanto mai controverso, soprat­tutto per effetto dell’opera del miniatu­rista, non si sa quanto fedele e attendi­bile rispetto agli strumenti realmente in uso a quel tempo.
Dalla seconda metà del Duecento e per tutto il secolo successivo, la zam­pogna diventa uno strumento musicale considerevolmente presente in Europa, almeno a giudicare dal cospicuo nume­ro di documenti iconografici che mostrano cornamuse. Secondo Baines [op. cit., p. 68], ciò induce a ritenere che, nel periodo appena precedente il XIII secolo, l’idea dell’otre per alimentare gli strumenti ad ancia si sia rapidamente diffusa ed abbia dato vita, col tempo, ad una sorprendente varietà di esemplari.

Le pive dell’Italia settentrionale

Il nome piva è genericamente asse­gnato agli aerofoni a sacco diffusi nell’I­talia settentrionale, la cui conforma­zione è rapportabile a quella di analo­ghi strumenti presenti in altre nazioni europee. Queste le caratteristiche strut­turali e organologiche delle pive italiane (fa eccezione la piva istriana, che ha pe­culiarità differenti);

  • polimpianto (le canne sonore sono in­serite in più aperture dell’otre);
  • chanter singolo (una sola canna me­lodica usata con entrambe le mani);
  • uso misto di ance (ancia doppia nel chanter, semplice nei bordoni);
  • alimentazione a bocca.

Tra i vari aerofoni a sacco dell’Italia settentrionale, si riscontrano, però, an­che differenziazioni. Il bordone, ad esempio, può essere singolo o doppio. L’uso musicale, inoltre, può essere pre­valentemente di accompagnamento (come nel caso della müsa) o solistico (es. baghèt).

Il baghèt e la baga

Il baghèt è la piva bergamasca, il cui territorio elettivo è quello della Val Gandino e di altre valli vicine. Il nome dello strumento fa esplicito riferimento all’o­tre (baghèt – diminutivo di baga – è voce dialettale che significa piccola borsa, piccolo otre). Al limite del totale abban­dono, questo tipo di piva è stato recupe­rato e nell’ultimo decennio ha goduto d’un significativo revival.
Il baghèt ha la seguente struttura:

  • chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori e 1 posteriore;
  • due bordoni cilindrici, realizzati in più sezioni assemblate a incastro.

Il baghèt ha una “sorella” veneta: la baga (borsa), che dopo aver patito l’e­stinzione, è stata di recente recuperata attraverso opere di ricostruzione e riuti­lizzo.

La piva istriana

La presenza della piva nelle comu­nità italiane dell’Istria è documentata per alcune località. Lo strumento ha doppio chanter con ancia semplice e nessun bordone. Un modello di piva istriana è strettamente imparentato col mih croato e appare, pertanto, come una versione di tale strumento che ha i chanter monoxili.
Un secondo modello di piva, invece, è di tipo diverso, ha i chanter separati; è una sorta di surle (doppio clarinetto in­nestato in un blocco di legno) con sacco.
La müsa delle quattro province
L’area elettiva della müsa è quella detta “delle quattro province” (Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova).
Queste le sue caratteristiche:

  • chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori (senza foro per il pollice);
  • un bordone cilindrico, con dei forellini che possono essere chiusi o lasciati aperti per variare la nota pedale.

Si tratta d’uno strumento d’accom­pagnamento, utilizzato in coppia col pif­fero, un oboe popolare che nella tradi­zione contemporanea viene più spesso suonato insieme alla fisarmonica. La müsa era uscita dall’uso, ma grazie al ritrovamento di vecchi esemplari (pezzi di strumenti o strumenti interi) è stato possibile un suo recupero.

La piva emiliana

Nei dizionari ottocenteschi dei dia­letti emiliani e romagnoli si leggono de­finizioni relative ad uno strumento mu­sicale denominato genericamente piva oppure, in modo più completo, piva da sacch (Romagna) e piva dal carner (Emilia), laddove i sostantivi sacch (sacco) e carner (carniere, bisaccia del cacciatore) inten­dono specificare la presenza d’un otre.
La piva emiliana è di tipo solista. Co­sì come le altre cornamuse del nord Ita­lia, ha attraversato una crisi che l’ha quasi condotta all’estinzione. Gli ultimi strumenti sopravvissuti hanno eviden­ziato questa struttura:

  • chanter con 7 fori digitabili (senza fo­ro posteriore);
  • due bordoni;
  • 4 impianti per le canne: 3 per il chan­ter e i due bordoni; 1 per la canna d’alimentazione.

Le zampogne dell’Italia meridionale

Col termine zampogna si indica l’ae­rofono a sacco dell’Italia meridionale (dal Lazio alla Sicilia). La zampogna ita­liana ha delle caratteristiche uniche, che la rendono facilmente identificabile all’interno del vasto campionario degli aerofoni a sacco conosciuti. Due, in par­ticolare, gli aspetti che la distinguono (fa eccezione la zampogna pugliese):

  • il mono impianto. Tutte le canne so­nore sono inserite in un medesimo blocco di legno;
  • il doppio chanter. Due canne per la modulazione del suono, staccate e leggermente divergenti.

Altra costante è quella dell’alimen­tazione “a bocca”.
Vi sono, però, anche caratteristiche che variano secondo i tipi e i modelli di zampogne. Una distinzione può farsi di­videndo gli strumenti in due categorie principali:

  1. zampogne con chiave;
  2. zampogne senza chiave.

Altra distinzione concerne la dimen­sione dei chanter, che possono essere di:

  • lunghezza uguale (tibiae pares);
  • lunghezza disuguale (tibiae impares).

Differenziazioni si riscontrano pure nell’uso delle ance. Ci sono zampogne che montano solo ance doppie, altre che usano ance miste ed altre ancora che usano solo ance semplici. Anche il nu­mero dei bordoni può variare. Si va dalle zampogne che non ne usano, alle zampogne che ne montano anche quattro.

Le ciaramelle

Col nome le ciaramelle si identifica una zampogna la cui area elettiva è l’Alta Sabina. Tale strumento rientra nella categoria delle zampogne zoppe, e mostra aspetti distintivi che ne fanno un tipo a sé stante. La più importante sua caratteristica musicale è che si trat­ta d’uno strumento che emette suono solo dai chanter, avendo la canna di bordone inattiva.
La tradizione delle ciaramelle è in forte crisi; sull’orlo del totale abbandono.

La zampogna di Panni

Tra le zampogne meridionali, è ano­mala quella pugliese di Panni (Fg) poi­ché ha caratteristiche completamente diverse dalle altre.
Tale zampogna, infatti, ha un solo chanter e un unico bordone, impiantati separatamente.
Entrambe le canne sonore sono fab­bricate con piante di arundo donax. Il chanter è estremamente corto e pre­senta tre soli fori digitabili anteriori, ed è completato da una piccola campana posticcia. Il bordone è costituito da un robusto fusto di canna cui si applica, sulla parte superiore, una zucca svuota­ta ed essiccata.
Lo zampognaro suona il chanter con una mano e con l’altra regge il bordone, tenendolo in posizione verticale. L’ancia è semplice sia sul chanter che sul bor­done.
L’otre è di pelle d’agnello. La sacca è premuta sotto il braccio della mano con cui si regge il bordone.

La surdulina

Surdulina è il nome col quale viene chiamato un tipo di zampogna presente in un’area geografica che comprende l’estrema zona meridionale della Luca­nia e località della Calabria settentrio­nale. Una caratteristica della surdulina è la sua ridotta dimensione.
Ecco la struttura dello strumento:

  • chanter cilindrici di eguale lunghezza. Quattro fori digitabili anteriori per ogni chanter. Lo sbocco terminale del chanter sinistro è chiuso;
  • i bordoni sono due o, raramente, tre (straordinariamente quattro). Il bor­done maggiore è sempre la canna più lunga dello strumento;
  • ance semplici sia sui chanter che sui bordoni.

La zampogna a palmi

La zampogna a palmi è uno strumento costruito in alcune località della Campania, della Lucania e della Calabria. È chiamata “a palmi” perché realizzata in vari modelli le cui grandezze sono espresse, appunto, in palmi (antica unità di misura corrispondente a circa 26 cm).
I modelli più in uso sono la 3 palmi e la 3 palmi e mezzo. Ma sono utilizzate anche altre misure.
La zampogna a palmi è fornita di chiave ad uno dei chanter, un congegno metallico che serve a chiudere l’ultimo foro per la nota grave, molto distanziato dagli altri. Tutto il meccanismo viene nascosto dal coprichiave, un involucro di legno appositamente bucherellato.
Nell’aspetto, questa zampogna è si­mile all’analogo tipo molisano. La diffe­renza più evidente è che la zampogna a palmi presenta due o tre bordoni attivi, mentre quella molisana, nei modelli oggi più in uso, ha un solo bordone so­noro (eccezionalmente due, in specifici modelli).
Come quasi tutte quelle “con chia­ve”, la zampogna a palmi è tradizional­mente usata per accompagnare la cia­ramella.

La zampogna a paro

Si definisce a paro il tipo di zampo­gna italiana diffuso nella Calabria meri­dionale e nella Sicilia orientale. Il nome deriva dal fatto che lo strumento ha i due chanter di “pari” misura. Queste le sue caratteristiche:

  • due chanter con 4 fori digitabili ante­riori e 1 posteriore su una canna, 4 anteriori sull’altra;
  • due, tre o, raramente, quattro bordoni sonori;
  • generalmente, ance tutte semplici (con qualche eccezione).

La zampogna a paro è strumento solista. Il suo nome dialettale è ciaramedda.

Altre zampogne

Oltre quelli descritti, nell’Italia meri­dionale esistono altri tipi e sotto-tipi di zampogne, molto meno diffusi e colpiti da grave crisi che li sta portando (o li ha portati, come nel caso della scupina mo­lisana) all’estinzione.

La zampogna zoppa.

È detta zoppa (in dialetto cioppa) la zampogna senza chia­ve costruita nel Lazio e nel Molise. La zoppa presenta il chanter maggiore che – proprio per l’assenza di chiave – è più corto rispetto a quello che su altri stru­menti è provvisto di tale congegno me­tallico. Nel Molise, l’uso della zampogna zoppa è quasi del tutto estinto. Per il La­zio occorre distinguere due zone. Nell’area meridionale, la cioppa mostra le stesse caratteristiche organologiche di quella molisana (e vive pressoché la stessa crisi). Nell’area dell’alta Valle del­l’Aniene, invece, la zampogna zoppa (strumento ormai non più praticato) mostra aspetti differenti, come l’uso di ance semplici.

Le grandi zampogne.

Vi sono nell’Italia meridionale delle zampogne con chiave che si distinguono per le considerevoli dimensioni e che sono comunemente chiamate “grandi zampogne”.
Oggi questi strumenti sono piuttosto rari, ma un tempo erano probabilmente più utilizzati. Si conoscono antichi docu­menti fotografici che mostrano zampogne le cui altezze non raramente sono pari o superiori a quelle degli zampogna­ri che le suonano.
Tra le grandi zampogne, una men­zione per quella ancora oggi in uso a Monreale (Pa). Si tratta d’uno strumento del tipo con chiave (a volte con doppia chiave) e senza coprichiave. È una zam­pogna solista, che suona in minore. Vie­ne usata anche in accompagnamento al canto per l’esecuzione delle novene.

La zampogna nel Molise

Nell’attuale tradizione musicale del Molise, la zampogna è strumento legato principalmente alla cultura di tre paesi: Scapoli, Castelnuovo al Volturno e San Polo Matese, ma anche altre località sono (o sono state) interessate all’uso degli ae­rofoni a sacco.
Castelnuovo e San Polo sono comu­nità nelle quali rimane attivo un buon numero di zampognari; Scapoli, invece, svolge un ruolo diverso, perché, oltre che essere luogo con cospicua presenza di suonatori, è il centro di produzione degli strumenti.
A Scapoli si costruiscono due tipi di zampogne: quella con chiave e quella zop­pa (di quest’ultima, si è già detto).

La zampogna con chiave

La zampogna molisana con chiave, come tutte quelle dell’Italia meridiona­le, ha sempre il doppio chanter, il mono impianto e l’alimentazione a bocca; ma mostra anche proprie peculiarità. Que­ste le caratteristiche dello strumento:

  • i chanter di lunghezza diseguale, di­vergenti e conici. Il chanter corto (de­stro) è fornito di 5 fori digitabili (4 an­teriori, 1 posteriore), mentre il chan­ter lungo (sinistro) ne ha 3 più il foro della chiave;
  • due bordoni, di cui – nei modelli oggi più usati – uno solo (il maggiore) pro­duce suono, mentre il secondo (il mi­nore) è muto. Vi sono, però, esemplari con doppio bordone sonoro, ma si tratta di strumenti che, benché ancora costruiti, nel Molise nessuno usa più;
  • ance doppie su tutte le canne sonanti;
  • campane che si avvitano all’estre­mità del fuso dei chanter e che pos­sono essere di due specie: campagnola (con padiglione ampiamente svasato) e vezzanese (con padiglione meno ampio).

I legni più comuni usati per la co­struzione delle zampogne molisane so­no l’ulivo e il ciliegio. Vengono, però, la­vorate anche altre piante ritenute adat­te. Molti strumenti sono fabbricati con l’uso misto di legni: (ciliegio per le cam­pane, ulivo per i fusi dei chanter e per i bordoni).
Per gli otri, è invalsa la consuetudine di utilizzare le camere d’aria di automo­bile, ricoperte di finto vello. Però, occa­sionalmente e su richiesta, si utilizzano anche pelli d’animale (capra o pecora).
Le zampogne molisane con chiave si costruiscono in più modelli, contraddi­stinti da prestabiliti numeri convenzio­nali. La zampogna modello 25 è oggi quella preferita dai suonatori, ma anche la 28 gode d’una buona diffusione. Alle grandezze, e quindi ai numeri, corri­spondono le intonazioni degli strumenti.
La molisana con chiave è zampogna d’accompagnamento, suonata in coppia con la ciaramella, che effettua le parti soliste dei brani musicali.
La ciaramella molisana (biffera) pre­senta 9 fori digitabili (8 anteriori, 1 po­steriore) e, così come per la zampogna, viene costruita in vari modelli, diversi per grandezze ed intonazioni, adatti a suonare col corrispondente modello di zampogna.

La scupina

Nel Molise, fino a pochi decenni fa, è stato in uso un particolare tipo di zam­pogna caratterizzato dall’avere i due chanter e l’unico bordone costruiti con la canna palustre (arundo). Lo strumen­to, la cui denominazione dialettale era scupina, aveva queste caratteristiche:

  • due chanter, con 4 fori digitabili anteriori e 1 posteriore per una canna, 4 fori anteriori per l’altra;
  • un bordone, formato da due parti assemblate ad incastro;
  • ance tutte semplici.

La scupina molisana – il cui uso è ormai estinto – era destinata al “sostegno” della voce in canti eseguiti in occasioni festive calendariali (capodanno, riti di primavera) e durante le serenate.

Mauro Gioielli